Presentazione

Mario Isnenghi

All’entrata

Irresistibile il sospetto che gran parte di questi giornali e giornaletti distesi in una folla di dimenticatissimi nomi lungo oltre un secolo di vita cittadina, siano fatti per chi scrive, prima e più che per chi legge. Inclinano a farlo pensare anche la rarità di cifre sulla tiratura e – peggio – sulla diffusione effettiva. E lo stuolo di numeri unici, numeri zero in attesa di autorizzazione, numeri 1 mai più seguiti da un n. 2. Vale per i giovanissimi, nella classica specie generazionale e aurorale dei giornali scolastici dei singoli Istituti; ed anche per i gruppi politici e sociali, all’insegna del ‘vorrei ma non posso’: da – per piluccare subito qualche esempio – “L’Alfiere” di Chioggia liberale nel 1893 all’anarchico “Non serviam” del 1910; dal settimanale socialista “La Coa del barababao”, sopravvissuto pochi mesi fra il 1890 e 1891, al più impegnativo, nel nome, “Il Grido dell’oppresso” (settimanale, 1891-1892); al circoscritto e mirato “Il Grido del fiammiferaio” che la relativa Lega edita fra il 1913 e ‘14; fino anche all’aborto di un quotidiano di sinistra annunciato e mai uscito, col nome minaccioso e alla fin fine delusorio e frivolo “Boie”, nel 1889; o – per volgerci ad altri settori minoritari della società – al “Fra’ Paolo Sarpi”, nome di copertura di un settimanale evangelico che fatica a uscire dal tempio, almeno qualche volta, fra 1882 e 1884 e cui viene inibito  l’accesso alle rivendite esterne. Una zona temporale, un contesto che rende palpabile che quel certo foglio, più che andare in cerca di lettori, serve a chi lo fa per certificare la propria esistenza in vita, è quella della Seconda Guerra mondiale: con la ritirata di tedeschi e fascisti verso nord, Venezia, oltre che zona di occupazione, diventa un frammento della capitale diffusa dei fascisti di Salò; e in particolare, la crepuscolare capitale del cinema e dell’editoria fascista repubblicana. All’epoca corre voce che ‘chi si firma è perduto’, ma proprio per questo si rinforza la motivazione esistenziale dei piccoli fogli di testimonianza e di appartenenza – magari animati da cappellani militari rimasti con il fascismo dell’ora estrema – che non è poi così necessario distribuire e che siano letti davvero.

Molto spesso – e questo in tutte le epoche – sono le più diverse categorie lavorative che puntano a darsi un proprio volto stampato. Finisce di frequente come con “il marò” ‘Notiziario interno dei marinai e pontonieri dell’A.C.N.I.L.’, che fa la sua comparsa nel 1953, parrebbe per una volta sola, nonostante i ben diversi propositi, tipici dei numeri 1: “Da questo numero – e speriamo per sempre – ‘il marò’ si presenta in una nuova veste editoriale, assume cioè un volto più severo e confacente alla sua funzione di foglio di battaglia e di avanguardia”. Sono solo pochi esempi in genealogie cartacee immediatamente interrotte o strozzate in fasce.

La grande, meticolosa, pluriennale ricerca su tutti i giornali veneziani, di qualunque periodicità, fra 1866 e 1969, realizzata dall’Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea – con il suo direttore Marco Borghi animatore inesausto alla testa di un gruppo di 18 giovani studiosi – serve anche a rimettere a fuoco questa realistica contabilità. E se il ‘morir giovani’ dei giornaletti pensati e fatti dai giovani, nella breve stagione in cui erano studenti o comunque apprendisti della vita, è nell’ordine delle cose, fa maggiormente pensare la moria di voci dissidenti: specie quando l’articolo programmatico si indirizza bravamente, con grande empito programmatico e vastità di orizzonti, a un pubblico popolare, che farebbe pensare a dei grandi numeri che poi non si concretizzano, o per lo meno non in forma di lettori. C’è l’analfabetismo di massa, certo, a spiegare la discrasia, specie finché ci aggiriamo nell’arco temporale fra i due secoli. Ma è pur vero che, intanto, a fronte di quelle progressiste o socialiste, il numero di testate e microtestate cattoliche non si contano, sono un numero sterminato. Si vada a vedere quanti sono i “Bollettini” parrocchiali, con questo nome, o le meno burocratiche “Campane di…”, seguite dal riferimento parrocchiale: una costellazione, un pulviscolo di periodici di cui è lecito chiedersi, di nuovo, se prevedano e abbiano effettivamente dei lettori; ma che certo esprimono e sono in grado di riprodurre sensi diffusi di appartenenza e internità a un mondo – un grande e al tempo stesso articolatissimo tessuto molecolare, capace anche di vicinanza, quale è appunto il mondo cattolico: appartenenza in chi scrive – parroco, cappellano, laici e laiche di fiducia – e in chi riceve il bollettino e, anche se non lo legge, lo sbircia solo, vi si riconosce e riconferma sentendosi parte di un tutto. Del resto, il mondo cattolico veneziano si esprime, oltre che nel carattere capillare del suo insediamento territoriale, anche con organi specifici di lunga durata quali “Il Leone di San Marco” ‘Periodico settimanale popolare’ (1903-1917); “Palestra del Clero” (1921-2000); e prima ancora, in periodo clerico-intransigente, nei quotidiani identitari che ha promosso, come “Il Veneto cattolico” (1867-1883) seguito da “La Difesa” (1884-1917): e qui c’è l’appartenenza, ma ci sono anche i lettori, un tessuto di lettori militanti, e alla fine anche di elettori, che rimandano all’Opera dei Congressi di Giovan Battista Paganuzzi, che fa di Venezia, la città del Patriarca Sarto poi Pio X, una capitale dell’intransigentismo, capace però anche, appena serve – per rintuzzare e impedire di nuocere alla borghesia laica e volterriana – di anticipare il passaggio ai blocchi clerico-moderati. 

Confrontando i quotidiani e periodici d’ogni fatta di cui è capace e attraverso cui si rappresenta e si organizza il mondo cattolico veneziano, verrebbe da chiedersi come mai anche di Venezia, la città di Paolo Sarpi, non si sia venuta formando – e anche più in grande – l’immagine di ‘sacrestia d’Italia’ che caratterizza Vicenza e Verona. E però, di fatto, la Giunta progressista e laica di Riccardo Selvatico per un quinquennio esiste; e poi a ogni elezione i socialisti di Elia Musatti e del “Secolo nuovo” – il settimanale dei socialisti da lui fondato nel 1900 e dalla lunga vita intermittente, fatta di intervalli e riprese, sino ancora al secondo dopoguerra – insidiano e sembrano sul punto di soppiantare finalmente la sempiterna Giunta del conte Grimani, la diga clerico-moderata e conservatrice che è stata fulmineamente eretta. Se la dialettica giornalistica non è all’altezza di questa dialettica politica, sembrerebbe conseguirne che la stampa non sia poi così importante, o non lo sia per l’elettorato popolare, che si forma e decide politicamente per altre vie (esempio classico di divaricazione, uscendo dalla nostra area, l’Emilia e la Toscana regioni rosse, seppur monopolizzate da sempre da quotidiani di destra quali il “Resto del Carlino” e la “Nazione”).

Discorso diverso per i gruppi dirigenti e direi anche per gli strati intermedi: quelli a cui si indirizzano, per esempio, gli infiniti “Almanacchi”, compreso l’“Almanacco Veneto”, uno degli organi e pubblicazioni collaterali della grande azienda del “Gazzettino”, che esce annualmente fra 1912 e 1933 e dove scrivono folle di collaboratori: giovani agli esordi, intellettuali locali di lungo corso, mezze figure, donne e magari mogli assurte come tali a una pubblica tribuna senza necessariamente essere emancipazioniste. Una folla di nomi, nomignoli e pseudonimi si raccoglie e dedica all’intrattenimento popolare nel localista e quasi per intero dialettale “Sior Tonin Bonagrazia”, un periodico umoristico che dal 1868 ‘ciacola ogni setimana’, spingendosi con intervalli, assenze e riprese sino al secondo dopoguerra: venezianeggia, ma “Ludere non ledere”, garantisce precauzionalmente sulla testata, in latino. A fine Ottocento sulla movimentata piazza veneziana anche i quotidiani – ancora di raggio municipale o provinciale – sono numerosi. E qui il “Il Tempo” (1861-1890), “L’Adriatico” (1876-1917) sono espressione di ceti borghesi liberali e radicali non precocemente inclini all’abbraccio con i clericali, come avviene per l’antica “Gazzetta di Venezia”, da sempre di e con chi vince. In questo paesaggio mosso, sopraggiunge come un fenomeno nuovo, il “Gazzettino” (1887-) popolaresco, più andante e meno costoso giornale ‘delle serve’, quale appare ai notabili, e la creatura di Gian Pietro Talamini spiazza la concorrenza, si radica, si estende e nel giro di una trentina d’anni sostituisce gli altri: 150.000 copie – una vetta inusitata –, quando sopraggiunge la Grande Guerra. Ed è qualche cosa di più di un giornale liberale, è patriottico, progressista, laico, e si preoccupa di raggiungere un pubblico largo e popolare, riuscendoci in effetti, come finora si sono avvicinati a fare solo i clericali, mentre le sinistre faticano a uscire dai nuclei di avanguardia e non ce la fanno a mettere insieme un quotidiano. 

Sintetizzo qui processi altra volta raccontati. Naturalmente, per sua natura, il repertorio di Borghi e dei suoi collaboratori dell’Iveser è molto più a proprio agio quando deve ragguagliare sui settimanali, quindicinali, mensili, annuari, che non sulle testate quotidiane. Per quanto la schedatura si possa estendere, è chiaro che non si possono delineare e comprovare con citazioni e testi le storie di testate quotidiane, che magari durano decenni o ci sono ancora. Sui contenuti, quindi, il repertorio funziona meglio tutte le volte che non sono in scena i quotidiani. In comune, però, e all’attivo di questo prezioso strumento di ricerca – destinato a durare anni e anni, anche perché, avendo scelto Internet, potrà essere continuamente implementato e aggiornato – sta una delle caratteristiche precipue del lavoro, il taglio stesso della ricerca. Bisogna tener conto che il suo promotore, Marco Borghi, è, di suo, un erudito. Bisognava esserlo per affrontare – saper durare e portare alla meta – una ricerca bisognosa in se stessa di tanto accanimento analitico, e in fondo mai chiusa, perché ci può sempre essere dell’altro, una testata sfuggita, una copia nascosta, un’altra biblioteca da esplorare (mica tutto è stato trovato qui sottocasa, nelle biblioteche di Venezia). A parte questo finale aperto, e che ha reso per anni esitanti nel dichiarare finito il lavoro, sin dall’avvio ogni individuazione – cataloghi e repertori alla mano – di ciascuna testata e della biblioteca che la conserva, per intero o con qualche numero più o meno sparso che andrà possibilmente integrato altrove, è solo l’avvio preliminare di una lettura analitica tesa ad accertare tutti quelli che hanno via via diretto quel foglio: ciascuno dei direttori da quando a quando, e chi erano i collaboratori, e dov’erano le redazioni, e quali tipografie lo stampavano… Moltiplicate il tutto per 1800 volte. Leggere gli articoli, dopo tanto puntigliose disanime, diventava a questo punto un lieto diversivo. 

Così, testata dopo testata, la città ha visto riproporsi una capillare geografia dei luoghi: che sono anche, o meglio diventano anche dei luoghi della memoria – quali altri li vengono oggi studiando –, ma sono anzitutto luoghi primari, la materialità ritrovata di quella corte, la calle, il campiello dove quel dato factotum o quel dato gruppo andava in un dato periodo a fare il giornale. Si trattava anche di individuare e dare i nomi delle tipografie: Bortoli, Ferrari, Emiliana, qui i nomi si ripetono. Gli apparati tecnici sono dove sono, non sono infiniti, e la scala di grandezza del prodotto giornalistico, ma anche la possibilità di accedervi sono legati ai finanziamenti. I silenzi delle sinistre o le loro voci così intermittenti, e rispetto alle altre, flebili – tutti quei poveri “Gridi” segnati dall’impotenza – sono l’espressione di questa dura materialità dei rapporti di forza. Anche da questo punto di vista, il cerchio si chiude – ed è destinato a chiudersi per altri decenni – quando alla fine della Seconda Guerra mondiale anche il “Gazzettino”, che intanto è diventato il monopolista dell’informazione quotidiana a Venezia, finisce sotto controllo cattolico: con il colpo di mano del suo proprietario Giuseppe Volpi, il grande Doge di Venezia fascista, che ha bisogno di un condono tombale e ne fa omaggio al partito del Cln che glielo assicura, la Democrazia cristiana. Così, nel dopoguerra, il vecchio giornale farà dimenticare a tutti le sue origini laiche e progressiste. Le sinistre – che nel dopoguerra controllano più di una volta l’amministrazione comunale

e provinciale – compiono il tentativo di proporre anche una alternativa di lettura, ma, a parte ogni altra difficoltà, le tipografie in città sono quelle che sono e ironia vuole che il quotidiano di sinistra, “Il Mattino del Popolo”, nato il Primo Maggio del ’46, che aspirerebbe a rompere il monopolio dell’informazione, sia costretto a stampare nella tipografia del “Gazzettino”: finanziandolo e soprattutto dandogli a un certo punto la possibilità, alzando i costi, di spingere il concorrente verso la chiusura (dicembre 1948).

Questa nota iniziale vuol essere solo un invito a mettere alla prova le funzioni del repertorio: fare un libro costava troppo e non ci siamo finora riusciti (si può sperare di rimediare in futuro), ma è anche vero che il computer consente a chi lo sa bene usare, in modo inventivo e tecnicamente adeguato, molti tipi di verifica che la staticità della carta stampata non faciliterebbe.

Qualche altro merito della ricerca, sia pure in questa maniera un po’ cursoria, non vorrei mancare di sottolinearlo. La stampa cattolica come fitto reticolo di militanti e funzionari che costruiscono e tengono in vita un mondo – si diceva sopra: la si può studiare benissimo qui, e restituisce a Venezia il ruolo che le è stato proprio di centro ideologico e di laboratorio politico. E questo non è stato vero solo in vista dell’Antistato del Sillabo e del ‘non expedit’ o della costruzione di un precoce centro-destra, a fine Ottocento, per contrastare e spegnere l’altrettanto precoce centro-sinistra. Ridiventa vero anche nel secondo dopoguerra. E qui le avanguardie del mondo cattolico non lavorano sempre e solo all’interno e a pro del blocco clerico-moderato, possono anche guardare verso i mondi di fuori: non solo in senso partitico – di nuovo, come a fine Ottocento, la formula di centro sinistra germina a Venezia –, ma nel senso di una riflessione teorica sull’autonomia delle sfere e sulla rottura della forzosa unità politica dei cattolici. Sto riferendomi a “Questitalia(1958-1970), dell’ex-direttore del settimanale della Democrazia cristiana, “Il Popolo del Veneto”, Wladimiro Dorigo, cresciuto a Santa Margherita, nella parrocchia e nel patronato dei Carmini, accanto a partigiani cattolici fucilati e a due prossimi direttori dell’organo diocesano “La Voce di San Marco”: un crocevia di orientamenti di un mondo cattolico non più comprimibile come in passato. Non è certo la prima volta che la forma-rivista dà buona prova. Nel Secolo di carta riemerge “La Donna”, precoce organo di riflessione e di battaglia delle donne, capeggiate da Alaide Beccari; il nazionalismo offre qualcuna delle sue pagine di riflessione più appuntite con “Il Dovere nazionale” di Alfredo Rocco e Gino Damerini (1914); “Angelus Novus” (1964-1974) che Massimo Cacciari inaugura nel 1964 pubblicando poesie dell’ancora vitando Ezra Pound, apre inusitati spazi a una nuova generazione di una nuova sinistra.

Fra le verifiche – divertite o malinconiche – che questo repertorio secolare rende possibili, c’è in effetti anche quello del gioco degli esordi e di inseguire tracce di vite: leggere certi nomi nei giornali pensati e scritti in gioventù, poi, procedendo nei decenni, andare a vedere chi c’è ancora, chi è andato altrove, i nomi che non ci sono più. Di nuovo: i giornali non solo come storia dei giornali stessi, ma come elaborazione e itinerari di gruppi dirigenti. Itinerari. Incroci. Eclissi. Qualche volta, anche, epifanie.